Rocco e i suoi fratelli. Sullo sfondo l’Italia in trasformazione (Geography Notebooks, Vol.4/2, 12/2021)

Ci sono dei film che sono dei saggi di geografia sociale. A patto che non ci si faccia troppo distrarre dalle sole vicende emotive dei protagonisti e si osservino con attenzione anche lo sfondo, gli esterni urbani e/o rurali, i mezzi di trasporto, gli ambienti, gli arredamenti, gli oggetti, gli abiti, le acconciature femminili e maschili. Certo anche la sceneggiatura può essere significativa quando evidenzia tipologie di relazione sociale tra i personaggi che danno indicazioni sulla struttura sociale, su quanto contino le differenze di disponibilità economica, di istruzione, di posizione sociale.

Uno dei film italiani più utili in questo senso è Rocco e i suoi fratelli (1960. Regia di Luchino Visconti), che mostra uno spaccato dell’Italia del Secondo dopoguerra, segnato dalla poderosa emigrazione dal sud al nord del Paese. Nello specifico si racconta la storia di una famiglia della Lucania, composta da una vedova recente e dai suoi quattro figli adulti (solo l’ultimo preadolescente), che raggiunge il quinto, primogenito, già emigrato a Milano.

La sceneggiatura è possente (il film dura quasi tre ore) e i personaggi, tutti di spessore, innescano diverse storie personali interconnesse dal legame famigliare; un legame messo sempre più alla prova dallo ‘spaesamento’ dovuto al trasferimento improvviso da un ambiente ‘marginale’ e tradizionale a quello urbano della ‘capitale’ economica e industriale d’Italia.

L’apparente paradosso è che questo “ritratto amaro e impietoso dell’Italia del boom economico” (Stefano Lo Verme. http://www.mymovies.it) sia stato girato dal conte Luchino Visconti di Modrone (1906-1976), antifascista e comunista fin dagli anni ‘30, ma discendente dal ramo della famiglia Visconti che resse Milano dal 1277 e dominò la scena politica dell’Italia settentrionale fino al 1447.

La pellicola è particolarmente comunicativa, si potrebbe dire ‘basta guardarla!’; resta vero che molto è legato al fruitore, alla sua capacità interpretativa di capire ciò che vede al di là dell’immagine stessa.

In questo film ritenuto controverso, più volte denunciato e soggetto a numerosi tagli di censura, si ritrovano elementi caratteristici della società di origine della famiglia. Ciò risulta particolarmente evidente nelle scene di dialogo, anche perché il regista fece la scelta di far recitare i protagonisti con l’inflessione dialettale meridionale, utilizzando un dialetto semplificato, ‘cinematografico’, molto inusuale all’epoca. Il rimando alle antiche abitudini appare già all’arrivo della famiglia a Milano, quando la madre richiama il figlio maggiore alle proprie responsabilità di sostegno al nucleo familiare, come pure lo critica per il fidanzamento fatto nel periodo del lutto. Analogamente, in un altro momento del film c’è la sequenza dei figli che escono di casa per il lavoro (l’occasionale spalare la neve) e baciano ciascuno la mano della mamma. Nel finale del film, in cui la vicenda tragica di uno dei figli si chiude, la madre si pente di aver portato i figli nella città tentatrice e corruttrice per inseguire il benessere, dove però anche una di basso ceto come lei può dire: “la gente per strada mi chiamava signora”. Ci sono anche scampoli di ‘tradizioni’ come, a cena, il brindisi da fare in rima oppure il racconto del rito del capomastro meridionale prima di cominciare a costruire una casa: gettare una pietra sull’ombra del primo che passa per fare il sacrificio rituale.

Gli esterni urbani sono le periferie simil rurali (ponte della Ghisolfa, Lambrate, il Portello [fabbrica dell’Alfa Romeo] i viali con giovani alberi), dove le strade hanno i paracarri in pietra e si snodano tra campi e orti, mentre l’Idroscalo appare come un luogo abbandonato e mal frequentato. L’ambiente esterno è fatto soprattutto di caseggiati nuovi o in costruzione (con ponteggi di legno) e la nuova casa popolare dove si trasferisce la famiglia è moderna, ma con ringhiera esterna ai piani. Interessante che sia l’anziano guardiano milanese del cantiere edile a suggerire ai ‘terroni’ di smettere di pagare l’affitto dopo due-tre mesi così da ottenere, con lo sfratto, la precedenza nell’assegnazione di una casa popolare del Comune.

Altri squarci di Milano vintage riguardano la darsena, il tetto del Duomo, da cui si vede il caseggiato di fronte non ancora totalmente coperto dalle pubblicità al neon (sono state tolte da anni), il ponte pedonale delle sirene, su cui troneggiano le cosiddette ‘Sorelle Ghisini’ (perché di ghisa), poi trasportate al parco Sempione una volta coperti i Navigli, i vespasiani pubblici (chioschetti in metallo, adibiti a orinatoi maschili) dalla fama un poco equivoca perché sede di incontri poco ortodossi. Fanno la loro comparsa anche alcuni fraseggi ormai scomparsi: la definizione milanese di ‘Africa’ rivolta (con un misto anche di bonarietà) ai meridionali immigrati e alcune gustose frasi in milanese come quella dedicata al personaggio Simone nella palestra pugilistica: “l’è un casciavit ma ga ona bela pappina” (non vale molto, ma ha un pugno potente).

Sempre per quanto riguarda gli esterni sono da notare inoltre i mezzi di trasporto. I treni con cui i protagonisti arrivano a Milano, ad esempio, sono ancora dotati di carrozze di terza classe con porte d’uscita-entrata per ogni scomparto e sedili di legno. All’ingresso in stazione, alcuni addetti provvedono all’immediato lavaggio dei vetri esterni, che effettuano a mano con degli spazzoloni. Il tram, su cui viaggia il bigliettaio, corre invece fra le vie illuminate e le luci delle numerose vetrine, che al primo impatto impressionano particolarmente i nuovi arrivati.

Gli interni sono prevalentemente quelli del seminterrato della prima abitazione, poi le palestre, i bar e la casa popolare. Una sola scena si svolge nella casa di un ricco borghese con mobilia, quadri e soprammobili; quella in cui la sua omosessualità è più esplicitata anche se lasciata all’intuizione (siamo nel 1960, è un argomento super tabù).

Per quanto riguarda oggetti oggi ‘scomparsi’, si possono citare la cartolina rosa per la chiamata al servizio militare maschile obbligatorio e le pezze in tela per i neonati stesi in casa, ormai sostituiti dai più moderni pannolini in cellulosa. Abitudini scomparse o modificate col tempo concernono il largo uso della giacca per i maschi, anche appartenenti ai ceti più bassi, e le acconciature femminili con i capelli cotonati. Verso la fine del film il personaggio Ciro chiede alla fidanzata un bacio in pubblico, che con esitazione e pudore viene concesso a labbra chiuse. Solo la ‘discussa’ Nadia fuma in pubblico o in presenza di maschi.

Pur all’interno di una storia che mostra soprattutto una condizione socio-economica difficile, in cui la boxe professionistica appare come un mezzo per migliorare la propria condizione, i segnali dei caratteri della piramide socio-economica vengono mostrati attraverso gli spostamenti del fratellino più piccolo (di 13-14 anni di età) che fa consegne in bicicletta per un droghiere e in un’altra scena, sul lago di Como (a Bellagio) presso il Grand Hotel si commenta il prezzo delle stanze a 10mila lire a notte.

Simbolo della mobilità sociale dell’Italia di quegli anni è il quarto fratello per età, Ciro (18 anni), che ottiene la licenza media ‘commerciale’ alla scuola serale. Va notato che fino al 1963 erano attive in Italia due scuole medie inferiori: una scelta da chi, superando un esame d’ammissione in quattro materie dopo la licenza elementare, ottenuta la licenza media intendeva proseguire negli studi, l’altra, per cui bastava la licenza elementare per l’ammissione, era scelta da chi era invece intenzionato a mettersi alla ricerca di un lavoro dopo la scuola media. È proprio quest’ultima ‘minore’ licenza che consente a Ciro di venire assunto all’Alfa Romeo come operaio.

Dopo una lunga scena famigliare catartica finale, sulla falsariga di quella che potremmo chiamare ‘tragedia greca’, che evidenzia la scomposizione della famiglia in diverse storie individuali, c’è l’incontro davanti all’Alfa Romeo, nella pausa pranzo, tra Ciro e il fratellino Luca che si conclude con le parole di Ciro che lo invita a costruirsi il suo futuro individuale anche al costo dei legami famigliari e che appaiono come una contestualizzazione socio-politica della vicenda famigliare delineata nel film.

La parola “Fine” si sovrappone ad un campo lungo sui viali ancora vuoti di traffico e sui caseggiati lontani della periferia milanese di allora.

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