Già il titolo appare intrigante per chi ha interesse per la geografia: La città sradicata. L’idea di città attraverso lo sguardo e il segno dell’altro (Pezzoni, N. 2020. ObarraO-Ibis edizioni, seconda edizione ampliata). Non per caso la prefazione è stata scritta dal geografo Franco Farinelli. E la città, nel suo complesso e articolato rapporto tra esseri umani e spazio, sia ‘naturale’ che costruito, è il terreno di studio di molte ricerche empiriche e di molti ragionamenti teorici della geografia sociale. Non solo perché mediamente ormai più della metà della popolazione mondiale è urbanizzata, ma soprattutto perché la fissità dello spazio costruito risponde a un bisogno umano di stabilità del vivere largamente sentito individualmente; però tale bisogno pone vincoli e confini al bisogno di cambiamento che c’è in tutti anche se praticato da una minoranza. Un cambiamento che diventa una necessità per quegli umani che non hanno più o non sentono di avere più uno spazio dove (soprav)vivere. E che, con un poco di provocazione intellettuale, inserisco nel rapporto-conflitto storico ed evolutivo tra nomadismo e sedentarietà. Tra un abitare stabile e un abitare con un rapporto flessibile con il territorio. La provocazione intellettuale è stata sollecitata dal fatto che già nella prima pagina dell’introduzione si pone come riferimento concettuale centrale “quell’abitare senza abitudine [in corsivo nel testo] […] come un’impronta a cui attingere nella costruzione d’un vivere collettivo fondato sull’apertura all’altro da sé” (21). Nell’articolo RiMaflow autogestita presente in questo fascicolo ho già affermato che approccio etico soggettivo di chi fa ricerca, contatto diretto con spazio fisico e esseri umani, capacità (anche creativa) di cogliere costanti e variabili nelle dinamiche spaziali, sono quegli elementi necessari per fare un’analisi socio-territoriale utile non solo per ‘capire’ un territorio umanizzato, ma anche per avere strumenti per cambiarlo per il meglio e con il coinvolgimento il più ampio possibile di chi ci vive. Una capacità che sappia uscire dagli schemi “per cogliere la dissomiglianza, la deviazione rispetto alla norma che fa spicco e che si imprime nella mente” come dice a pagina 61 la citazione di Ernst H. Gombrich (1978. ‘La maschera e la faccia’, in Gombrich E.H., Hochberg J., Black M., Arte, percezione e realtà. Come pensiamo le immagini. Einaudi. Torino).
Sono elementi che, con altri ancora, si trovano tutti in questo libro, risultato di una lunga e articolata ricerca sul campo che ha avuto come centro di attenzione i migranti appena arrivati in città (prima Milano, poi Rovereto e Bologna). Lo scopo della ricerca è stato capire quale mappa mentale si costruisce nella mente di chi vive nella città “dove insediarsi non equivale a radicarsi” (22) e se è in qualche modo confermata l’ipotesi dichiarata “che la condizione di instabilità […] sia connaturata all’abitare contemporaneo” (23). “Nell’osservare la città, i migranti vi posano uno sguardo che appare incontaminato rispetto alle riproduzioni codificate della geografia urbana” (24); la non casualità della prefazione di Farinelli deriva anche dal fatto che l’autrice, in particolare nel secondo capitolo, sposa e cita (72-74) la nota critica di Farinelli alla ragione cartografica in cui “ciò che appare prende il posto di ciò che è” (Farinelli, F. 1992. I segni del mondo, immagine cartografica e discorso geografico in età moderna. Firenze: La Nuova Italia, 165) e “la cui positivistica assunzione ha impedito alla geografia umana una funzione conoscitiva in senso critico-ascientifico” (74). Così gli spazi percorsi dai migranti (soprattutto quelli arrivati da poco) evidenziano “il segno dei confini, che lacerano il territorio tentando di imporre l’immobilità in un’epoca connotata dal movimento” (25).
La condizione del migrante, soprattutto se illegale, è fortemente e dinamicamente spaziale: da un lato per le umane necessità fisiche quotidiane, che sono concrete e (indissolubilmente?) legate allo spazio e/o dipendenti dallo spazio, e dall’altro perché le relazioni con i diversi individui e gruppi umani sono necessariamente ‘ingabbiate’ (264-267) dalla conformazione dello spazio e dalle regole sociali del suo vissuto: il genre de vie inteso in senso articolato, alla Reclus. Il vivere del migrante è “un abitare privo di quel diritto di avere diritti” (25, riferimento in nota a Rodotà, S. 2012. Il diritto di avere diritti. Roma-Bari: Laterza) e l’autrice dichiara apertamente che “l’esperimento proposto [… è un] tentativo di superare la prerogativa del potere sull’altro che da sempre divide chi appartiene – a un territorio, a un diritto, a un sistema – da chi è escluso” (25). Nella speranza di riuscire a stimolare un dibattito che scardini “la condizione segregata […] residenziale, intellettuale, professionale, scolastica…” (26) che però non solo è comune a tutti i migranti, ma anche a tutti noi cittadini come conseguenza delle operazioni ‘cartografiche’ dello zoning e anche del selfcaging non voluto (auto-zoning forzato dipendente dal reddito) e voluto (‘scelta’ di vicinanza fisica con i simili per stile di vita).
L’osservazione del gesto del migrante, che nel momento in cui disegna la sua mappa mentale della città manifesta una appropriazione conoscitiva (330-333) che consente di attingere “a diversi gradi di libertà” (30), può spingere a riprendersi la libertà di pensare in modo più dinamico e aperto; non a caso l’ultimo capitolo del libro si intitola “Aperture” sia perché “si propone di generare attraverso il gesto dell’altro un nuovo spazio etico a fondamento della città” (30) sia perché auspica che questa ricerca ne produca di nuove, diverse, ‘altre’. Intendendo l’abitudine non solo come la pratica umana e naturale del selfcaging, ma anche l’acritica accettazione di consuetudini e di norme e regolamenti cittadini, l’abitare senza abitudine è strettamente connesso a quel diritto per cui “si deve poter abitare sempre e ovunque” (Gabellini, P. 2010. Fare urbanistica, Roma: Carocci, 26), che è un modo essenziale e conciso di dire quello che afferma l’articolo 2 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.
A pagina 32 l’autrice riconosce un ruolo alla geografia nelle “contaminazioni” che hanno contribuito alla definizione della ricerca e del suo approccio. Nella parte in cui delinea la struttura del libro (27-30) c’è il riconoscimento dell’ampio valore strumentale d’analisi della mappa mentale, che è da tempo acquisito anche tra i/le geografi/e, e in particolare quelli/e che si interessano di didattica e la usano con i propri studenti. Così si afferma la perdurante validità del lavoro di Kevin Lynch (Lynch, K. 1960. The image of the city, Cambridge: MIT Press) come griglia di supporto al lavoro preparatorio, alla strutturazione e all’analisi dell’esperienza. Rimangono validi gli “oggetti urbani” di Lynch (riferimenti, luoghi dell’abitare, percorsi, nodi, confini), la cui trasposizione e reinterpretazione ha fatto da struttura alla rappresentazione grafica a cui sono stati chiamati i migranti nel momento in cui l’intervista dinamica li invitava a costruire la mappa mentale della loro esperienza spaziale nella città. La giustificazione metodologica delle ragioni del modo di operare è nel terzo capitolo. Nel quarto capitolo sono riprodotte settanta delle cento mappe rilevate dalla ricerca. Voglio sottolineare la particolarità di questa esperienza e cioè che la scelta di coinvolgere gli immigrati da poco punta a far ripensare l’attualità del vissuto “senza voltarsi indietro verso le proprie origini” (28). In questo vi leggo l’andare a cercare il senso profondo di umanità prima e oltre le costruzioni iconografiche della propria singola esperienza culturale. E infatti l’analisi delle mappe del quarto capitolo va a interpretare le “diverse attribuzioni di senso” che emergono dai cinque oggetti urbani di Lynch. Nel quinto e sesto capitolo si riproduce una scelta delle mappe mentali ottenute dall’esperienza ripetuta a Rovereto e Bologna e, infine, nel settimo capitolo si confrontano le ipotesi dei capitoli d’apertura con gli esiti della ricerca.